A Bologna la giustizia penale era amministrata dall’uditore del foro noto come “Torrone”, dalla torre del Palazzo pubblico in cui avevano sede gli uffici e le carceri. Gli uditori erano nominati direttamente dal papa ma  la loro attività era sottoposta al controllo e al potere decisionale dei legati, cardinali inviati al governo della Legazione di Bologna - più o meno corrispondente all’estensione dell’attuale provincia. L’attività del foro criminale era regolata da Costituzioni, le prime delle quali erano state emanate alla metà del Cinquecento e poi periodicamente riformate fino ad arrivare alle Costituzioni di Benedetto XIV del 1744.
    Sappiamo così che il  processo si avviava quando veniva presentata una denuncia, tranne nel caso di reati particolarmente gravi - come lesa maestà, assassinio, incendio doloso, avvelenamento, falsificazione di moneta, stupro violento, blasfemia, resistenza ai pubblici ufficiali - per i quali l’uditore poteva procedere per dovere della sua carica (ex officio), ma sempre avendo prima verificata la presenza di elementi per comprovare la sussistenza del reato.
 Nel Settecento si ricorreva ancora alla tortura, quando non c’erano prove inconfutabili per formulare un giudizio di colpevolezza ma gli indizi erano tali da rendere un indagato fortemente sospetto, soprattutto in caso di furti ripetuti; si procedeva alla sospensione dell’inquisito alle corde, sia pure regolata (non più di un’ora in un giorno, non più di due volte, eccezionalmente tre, nei giorni successivi). C’è da dire che moltissimi riuscivano a sopportare il supplizio senza confessare, al contrario di quanto avveniva cento anni prima, quando le torture erano ripetute e durissime, tanto da far ammettere ai malcapitati qualsiasi cosa i giudici si aspettassero di sentire da loro.
Alla fine del processo,  chi si vedeva contestare l’accusa di colpevolezza  aveva diritto a un patrocinio gratuito. I difensori d’ufficio  peroravano la causa degli imputati nella congregazione criminale (il collegio giudicante che emetteva la sentenza) non solo per i poveri ma per tutti coloro che dovevano essere sottoposti a giudizio.
Complessivamente, dalla metà del Settecento, la società bolognese sembra sotto lo stretto controllo del tribunale del Torrone:  esso svolgeva una funzione disciplinante a tutti i livelli: nei confronti dei nobili e dei cittadini influenti, i quali mezzo secolo prima erano ancora ribelli all’autorità del sovrano pontefice, e che ora si rivolgevano con ostentata deferenza al legato, rappresentante del papa. Quanto ai poveretti,  essi si vedevano punire con singolare durezza per ogni colpa, anche se commessa sotto la spinta del bisogno. Fra i crimini più perseguiti, i processi per reati di sangue erano nettamente diminuiti rispetto al secolo precedente mentre i reati contro la proprietà difficilmente restavano impuniti. Inoltre, non si pronunciavano sentenze contro molti ferimenti e omicidi perché la parte lesa concedeva il perdono al colpevole.
I membri del clero non erano soggetti al foro secolare del Torrone e venivano giudicati dal foro arcivescovile, ma loro malgrado dovevano adattarsi a subire il trattamento riservato ai criminali laici quando per gravi reati venivano fatte valere le ampie attribuzioni di potere che erano concesse dal papa ai legati e quindi al tribunale del Torrone che era alle loro dipendenze. Nel 1789 il processo per il furto al  Monte di Pietà al  conte Lucchini, che chierico non era, fu iniziato dal foro ecclesiastico perché il reato era stato commesso nel Sacro Monte, ma fu poi proseguito e concluso in Torrone in considerazione della gravità del crimine.